None Too Soon (Guitar Club 1997)

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Summary in English: The interview with Allan Holdsworth discusses his album "None Too Soon," where he, along with an exceptional trio featuring Gordon Beck on keyboards, Gary Willis on bass, and Kirk Covington on drums, reinterprets well-known songs by artists like Irving Berlin, John Coltrane, Django Reinhardt, Bill Evans, and even Lennon/McCartney. The album aims to introduce familiar songs to the audience, making it easier for them to appreciate Holdsworth's unique musical style. The selection of songs was based on their personal connections and passions, focusing on artists that had influenced their musical careers. The interview also touches on Holdsworth's use of the SynthAxe, a guitar synthesizer, in some tracks, and his desire to revive interest in this instrument. [This summary was written by ChatGPT in 2023 based on the article text below.]

Machine translated version here: None Too Soon (Guitar Club 1997), English

Grazie mille a Gabriele per aver contribuito a fare la trascrizione!

None Too Soon, Original Italian version

Guitar Club July 1997

By Fausto Forti

GC: Iniziamo con l’ultimo “None Too Soon” contente tra l’altro personali remake di brani di autori importanti come Irving Berlin (How Deep Is The Ocean), John Coltrane (Countdown), Django Reinhardt (Nuages), Bill Evans (Very Early), e addirittura Lennon/McCartney (Norwegian Wood)?

AH: Con me, nell’ album suona un trio d’eccezione composto da Gordon Beck alle tastiere, Gary Willis al basso e Kirk Covington alla batteria. L’idea di “None Too Soon” è venuta proprio da Gordon.

Un giorno mi prende in disparte e mi dice “perché con incidiamo una raccolta di brani conosciuti e amati dalla gente, famigliari per la maggior parte di loro? Di modo che possano più facilmente avvicinare ed apprezzare quella che è la tua musica?”

Dunque, se vuoi, un doppio scopo: presentare canzoni che appartengono alla nostra vita, che sono ormai parte di noi come uomini e artisti, ed essere in qualche modo propedeutico al mio modo di suonare e di interpretare a la musica. Questo perché, parlando di brani originali, chi ascolta spesso non ha punti di riferimento per meglio interpretare struttura e significato. Soprattutto se il tipo di approccio non è dei più facili, dei più semplici, come nel mio caso.

GC: A quel punto sceglieste gli autori. Seguendo quale criterio?

AH: [xxx] avevo un precedente a cui guardare, un album uscito tre anni fa, almeno credo, per il mercato giapponese, in cui chitarristi di diverse estrazioni musicali si impegnavano in una libera rilettura di brani dei Beatles. Credo si chiamasse “Come Together”. L’idea, nella sua semplicità, mi è parsa subito brillante. A quel tempo Gordon veniva spesso da me, ci frequentavamo in maniera abbastanza assidua perché entrambi impegnati in progetti simili, e il discorso cadde su quel disco. Decidemmo dunque di approfittare del momento favorevole. Chiamammo perciò Gary Willis e Kirk (Covington) e iniziammo a scegliere il materiale. Certo il repertorio a cui attingere era vastissimo. Restringemmo allora il campo a quegli autori che tutti sentivamo più vicini, passioni communi coltivate nel tempo. E dunque venne fuori la playing list finale. Personalmente, proposi subito How Deep is the Ocean di Irvine Berlin per me uno dei più grande grandi compositori della storia della musica, e Nuages di Diango Reinhardt, un altro autentico mostro di bravura e di creatività.

Ovviamente, ognuno butto li dei titoli su cui, nel 99% dei casi, eravamo immediatamente d'accordo. Come Isotope di Joe Henderson o "Countdown" di Coltrane: colonne portanti della nostra formazione artistica. Pensando a Come Together puntammo anche su un brano dei Beatles, optando per "Norwegian Wood". Uno degli episodi più particolari del repertano, vuoi per l'allora novità del sitar vuoi per la struttura armonica e la melodia per una volta assai più importanti e preminenti delle parole. Il remake e risultato azzeccato, d'atmosfera. Uno dei momenti più profondi e toccanti della raccolta, forse insieme a "Inner Urge” di Henderson.

GC: Sull'album usi quasi sempre la fedele Steinberger, più la SynthAxe in due o tre brani. Sei stato un pioniere del suono della chitarra sintetizzato. Donando alla SynthAxe un'aura di credibilità?

AH: Lo adoperata in tre brani ("Nuages", "None Too Soon” e Very Early). con risultati eccellenti. Non mi considero né un pioniere né un grande talento solo per essere riuscito a produrre suoni piacevoli e interessante da questo strumento! Non ho mai capito la diffidenza e l'indifferenza che è anche peggio, verso la SynthAxe. Al contrario di ciò che si sente dire, sebbene i suoi estimatori siano numerosi almento quanto i detrattori, questo strumento si rivela utile e interessante.

Diversamente dalgi altri guitar synth, non richiede una preparazione specifica, non è necessario cioè dimenticare la propria tecnica chitarristica e ricominciare daccapo. In più, puoi usare suoni completa. Mente separati da quelli propri della chitarra. Ricordo che lasciai temporaneamente la SynthAxe quando l'azienda ebbe dei seni problemi legati alle parti di ricambio. Era diventato un incubo: figurarsi durante un tour. Ora le cose sono cambiate.

GC: Fu allora che passasti a Steinberger?

AH: Quando ricominciai ad usare esclusivamente la chitarra, fui subito attratto dalle possibilità offerte dalla Steinberger. Allora (si parla di sei sette anni fa) mi sembro quanto di più tecnologicamente avanzato offrisse il mercato. Ideale per quello che è sempre stato lo scopo del mio essere musicista. Quello cioè di portare la chitarra e i suoni da lei creati al di fuori di certe aree, diciamo standard, avventurandomi in soluzioni sonore assolutamente non "caratteristiche".

GC: Un tempo usavi anche una Ibanez e, in alternativa, una Gibson ES-335. Come amplificazione sei invece sempre stato fedele ai Mesa Boogie Dual Rectifier.

AH: La Ibanez appartiene al passato e cosi la Gibson, ora suono la Carvin modello Holdsworth. Riguardo gli ampli hai ragione, in effetti mi sono sempre trovato bene con i Mesa Boogie.

Parlando di strumenti e canzoni, devi pensare che "None Too Soon", almeno la sua realizzazione in studio, risale a quasi tre anni fa. Dunque, per me si tratta di un album ormai datato. Molte cose sono cambiate.

GC: Puoi anticiparci qualcosa sul prossimo lavoro?

AH: Lo inciderò con i ragazzi con cui sono ora in tour (Gary Novak e Dave Carpenter), siamo un trio ben assortito e ottimamente affiatato. Tre personalità diverse ma complementari. Alla fine di questa serie di concerti europei ci riposeremo un po' per poi ritrovarci in studio verso ottobre. Il nuovo lavoro dovrebbe uscire all'inizio del prossimo anno. Almeno spero.

GC: Sei nato a Bradford, nello Yorkshire, il 6 agosto del 1946 e la tua vita artistica è costellata di incontri, episodi e incisioni importanti. Sei venuto a contatto negli anni Settanta con l'intellighenzia di un certo English Sound, ai confini tra pop e jazz. che ha lasciato un'impronta indelebile. Cito a caso John Hiseman (prima Colosseum poi Tempest). lan Carr (autore di una splendida biografia di Miles Davis) e Bill Bruford.

AH: Pensa che all'inizio, da ragazzo, non avevo alcuna idea né la minima intenzione di diventare musicista! In generale, su cosa volessi fare da grande Amavo pero già allora la musica, l’ascoltavo in dosi massicce e mi divertivo a strimpellare un'acustica: un semplice passatempo, nulla di più odi diverso. Dal desiderio di ascoltare, piano piano passai a quello di interpretare, di riprodurre in qualche modo quei suoni. Da principio il mio amo re era riversato sul sassofono: avrei dato qualsiasi cosa pur di possederne uno, ma purtroppo era troppo costoso per le possibilità finanziane dei miei genitori, cosi mi comprarono una chitarra. Era di mio zio, che la vendette a papà. Ma anche allora, di diventare musicista, neanche una sfocata intenzione. Iniziai a suonare con dei ragazzi del mio quartiere, avrò avuto 18 anni, giusto per per passare qualche ora piacevole divertendoci. Nel frattempo continuavo a fare pratica e prendere qualche lezione da mio padre, che però era un pianista. Ho due fratelli e una sorella, ma sono l'unico con il pallino della musica.

GC: Ricordi quale fu la tua prima chitarra?

AH: La primissima fu un'acustica da quattro soldi di cui non ricordo neppure la marca, mentre la prima "good guitar" fu una Hofner President che costava circa 30 sterline.

GC: Poi il grande salto, alla conquista di Londra.

AH: Seguii un bravo sassofonista, anch'egli trasferitosi nella capitale pochi mesi prima, che mi offrì in affitto una stanza del suo appartamento. Era il 1970. Cominciai a frequentare i locali giusti e conobbi gente come John Hiseman e lan Carr. Proprio con Hiseman, con cui diventai subito grande amico, iniziai ad incidere. Precisamente con i Tempest (la nuova creatura dopo i Colosseum), un album omonimo che ancor oggi ascolto volentieri. Anche se, a patto che la memoria non mi giochi brutti tiri, forse le primissime cose le feci con Ian Carr ei suoi Nucleus. Comunque il periodo è quello. Allora la situazione musicale a Londra era spumeggiante, creativamente parlando all'apice: molto meglio dell'attuale, per capirci. Con lan Carr incisi "Belladonna", non a caso prodotto dallo stesso Hiseman. Allora il mio scopo primario era di fare esperienza, suonando con musicisti che apprezzavo e che mi stimavano. L'atmosfera era di grande fermento creativo. Con i Tempest usavo una Gibson ES-335 che apparteneva a Paul Williams, peraltro un cantante. Poi con i Nucleus passai ad un'altra Gibson, una SG, e a un modello costruito appositamente per me da un ragazzo di Londra, un artigiano particolarmente dotato. Il mio primo Signature Model! GC: Dopo passasti nei ranghi del Tony Williams Lifetime. AH: Incisi due dischi, "Believe It" è “Million Dollar Legs". Suonare con lui era davvero il massimo, una persona fantastica, molto umana e gentile, un artista professionale e disponibile. Tony è stato un carissimo amico. L'avventura dei Lifetime fini per il più semplice dei motivi: mancanza di soldi.

Finanziariamente le cose andavano sempre peggio, così lo scioglimento divenne inevitabile. In quei due dischi usavo una Gibson SG Custom.

GC: Un altro capitolo importante della tua carriera è quello relativo alla collaborazione con i Soft Machine.

AH: Venni in contatto con loro tramite John Marshall, il batterista. Insieme a Brian Blane, membro di spicco della Musicians Union (l'Unione dei Musicisti Inglesi) con cui i Soft Machine collaborarono in diverse occasioni. Si trattava di una specie di clinics che la band teneva di tanto in tanto e alle quali mi fu offerto di prender parte. Fu allora che mi chiesero se volevo unirmi a loro, naturalmente risposi di si. Registrammo “Bundles", che rimane l'unica testimonianza su vinile perché di lì a poco ricevetti una telefonata da Tony (Williams) e andai con i suoi Lifetime.

GC: Poi fu la volta dei Gong di David Allen.

AH: Non conoscevo nessuno di loro. L'incontro avvenne grazie alla mediazione di un manager della Virgin Records che lavorava allora anche per la band a livello più che altro organizzativo. I Gong incidevano per la Virgin e lui mi chiese se ero disposto a fare qualcosa con loro.

Da notare che non avevo la minima idea di quale fosse la musica, che non li avevo mai ascoltati prima. Un salto buio che si rivelò però molto interessante. Imparai a conoscerli ed apprezzarli, un gruppo assolutamente unico. Il risultato fu "Gazeuse!". Piccolo particolare: non ho mai incontrato David Allen ancor oggi non so chi sia. A parte l'album presi parte ad alcune session di studio, che comparvero successivamente qua e là on un paio di altri lavori.

GC: Nel giro di pochi mesi, siamo intorno al 1976, passasti dai Gong a Jean Luc Ponty e poi a Bill Bruford.

AH: Con il primo incisi interamente "Enigmatic Ocean" mentre collaborai ad alcuni episodi di "Individual Choice" (1983) alcuni anni più tardi. Dopo venne Bill Bruford e il suo lavoro da solista "Feels Good to Me" seguito dagli UK e relativo debutto discografico. Ho suonato con gente molto diversa nel corso degli anni sentendomi sempre a mio agio, perché tali e tanti modelli musicali avevano un prezioso comun denominatore, l'improvvisazione. Il vero cardine attorno al quale ruota la musica. Il jazz è essenzialmente questo: imparadisare significa creare continuamente. GC: Quale musica ascoltavi da ragazzo? AH: Iniziai con il jazz, lo swing, le big band e gente come Charlie Christian, Django Reinhardt, Joe Pass e Jim Hall. Poi Charlie Parker e John Coltrane e via elencando. Naturalmente però non potevo certo partire con il jazz, così mi adattavo ai successi del momento, alla pop music senza dubbio più facile, più abbordabile. E poi chi veniva a sentirci chiedeva pop tunes...

GC: All'inizio degli anni Ottanta ha inizio la tua carriera di solista.

AH: Il primo gruppo che formai si chiamava False Alarm, come che poi cambiammo in I.O.U. (le iniziali della frase, molto comune nel linguaggio inglese, “I Owe You", quanto ti devo, in denaro) perché nei primi tempi pagavamo per poter suonare e spendavamo in mezzi di trasporto molto di più di quanto incassassimo da ogni gig. Eravamo in rosso sparato, un passivo notevole. La frase ricorrente con gli organizzatori era sempre quella "How much I Owe You to play in your club?". Allora usavo la fedele SG insieme ad una Fender Stratocaster Custom, realizzata per me da Dick Knight, uno dei migliori costruttori inglesi.

GC: Uno dei tuoi lavori migliori rimane "Atavachron”. Ma da dove arriva quel nome?

AH: Si tratta di una macchina sperimentale usata in uno degli episodi televisivi di Star Trek. L'episodio si intitolava "All Our Yesterdays" e questa macchina serviva per rimandare la gente sul proprio pianeta. Una sorta di teletrasporto. Sono molto interessato al genere “science fiction".

GC: Un'ultima domanda. I tre dischi che porteresti via con te…

AH: Tre autori di musica classica: il quartetto d’archi di Ravel, qualcosa di Debussy e Bela Bartok.

[Editoriale]

“None Too Soon" e una raccolta spettacolare per eccellenza: abili e versatili interventi su brani famosi di maestri quali Irvine Berlin, John Coltrane, Django Reinhardt e la coppia Lennon/McCartney. Insieme a composizioni firmate Gordon Beck, tastierista di enorme talento che lo accompagna in questa sua escursione sonora al fianco niente di meno che di Gary Willis al basso e Kirk Covington alla batteria. Ovviamente, e lo avrete già capito, stiamo parlando di Allan Holdsworth, il chitarrista inglese che affascina per i suoi piani vividamente cromatici per le scansioni quasi geometriche degli interventi e per quel senso minimale dei suoni in perenne bilico tra sperimentalismo e gusto del retro. Conformandosi maestro di musica e consolidando la sua fama internazionale, la stessa che in 35 anni di onorato servizio, lo ha portato a stretto contatto con alcune tra le menti più geniali e all'avanguardia de panorama musicale internazionale da Jon Hiseman a lan Carr, da Jean Luc Ponty a Bill Bruford, attraverso le esperienze preziose, seppur brut alla corte di grani assolutamente innovatiti come i Soft Machine et Gong. Arricchimento umano e artistico che preludono al grande salto, al battesimo di una carriera solistica a tutt’oggi carica di enorme fermento creative. La popolarità che lo ha fatto diventare autore di alto enorme forma a meta degli anni 70 allorché dono le blasonate partecipazioni all’ album dei Tempest e a "Belladonna" a firma lan Carr & the Nucleus, Allan ritrova alla corte di Tony Williams e dei suoi Lifetime poi, in rapida successione, apparire sui solchi di " Bundles “.

Una dei capitoli più controversi e al contempo ricchi Spunti musical narrativi della Macchina Soffice; di “Gazeuse" dei Gong, sotto l'alto patrocinio della mente continua ebollizione di David Allen e di "Feel Good” ([sic] di Bill Bruford il cui lineup vede Dave Stewart alle tastiere, Jeff Berlin al basso e Annette Peacock alla voce. La prova di Allan è superba, maiuscola al punto che Bruford lo vuole con sé quando, l'anno successivo, da vita agli UK. Un vero supergruppo, definito dai media "art rock band", un quartetto stellare di cui fanno parte, oltre a Bill e Allan, John Wetton (King Crimson, Uriah Heep e Roxy Music) e Eddie Jobson (Roxy Music), che incontra subito il favore incondizionato dei giovani appassionati. I punti focali, i poli d'attrazione rimangono tuttavia il drumming compatto e jazzato di Bill, il quale, per inciso, ha svoltato dal rock progressive ad una jazz fusion di stampo americano, unitamente al fluido e lucido suono della chitarra di Allan: già proiettati nel futuro, già con la mente e le dita altrove. Bill approderà, dopo una serie di escursioni musicali di vario stampo, al porto sicuro di Robert Fripp mentre Allan punterà su lidi jazz fusion più marcati e sperimentali.

Gli anni Ottanta si aprono per Holdsworth nel modo migliore, con un proprio gruppo chiamato I.O.U. (con lule Paul Carmichael al basso, Gary Husband alla batteria e Paul Williams alla voce) e un album omonimo che sorprende per la freschezza e l'originalità dei brani in scaletta. Da allora sono trascorsi una quindicina d'anni e otto album, tra cui meritano citazione "Metal Fatigue" è ”Atavachron": quintessenza della magistrale tecnica chitarristica del nostro, tanto da essere ancor oggi presi ad esempio da un paio di generazioni si aspiranti axemen. Già, perché l'influenza di Holdsworth sui suoi figlie nipoti, per esigenze anagrafiche, è davvero enorme.. chiedetelo a Eddie Van Halen, che per lui nutre una autentica venerazione, oppure a Eric Johnson il quale non manca mai di annoverarlo tra le sue maggiori ispirazioni. A tanta fama e dovuta gloria corrisponde però un carattere chiuso, introverso, una timidezza che rischia di essere scambiata per scontrosità, per insofferenza. Soprattutto con chi ha rapporti superficiali e sporadici. Al contrario, una volta entrati nelle grazie, superato cioè quello scoglio iniziale, Mr. Holdsworth appare come in realtà è. Una persona affabile e disponibile, che non rinuncia a un buon boccale di birra mentre attinge all'album dei ricordi. Il trio con cui si presenta in questo tour italiano comprende Dave Carpenter al basso e Gary Novak alla batteria, ed è davvero un bel sentire. Il suono della Carvin di Allan è, se possibile, ancor più leggero e insinuante che in passato, mentre gli arpeggi e i legato appaiono più inusuali e ispirati.

A proposito di Carvin (l'azienda di Los Angeles fondata nel 1946 dal chitarrista di hawaiian guitar, Lowel Kiesel, che scelse come nome l'acronimo dei figli Carson e Gavin), Allan ha contribuito in maniera determinante alla realizzazione del modello che porta il suo nome, presentato durante lo scorso NAMM Show: il risultato di due anni di lavoro, uno strumento praticamente unico. Ma a lui va ascritto anche il merito di aver portato agli onori delle cronache la tanto bistrattata SynthAxe da molti illustri colleghi definita un ibrido, un incrocio tra tastiera e chitarra: difficile da usare, poco versatile e ancor meno mezzo musicalmente espressivo. Poi era passato a Steinberger, chitarra che diventerà sua preziosa alleata (unitamente a un paio di modelli costruiti appositamente dal geniale tecnico canadese Bill DeLapp direttamente ispirati a quello della casa americana), Partendo dall'assunto per cui Allan si è sempre maggiormente concentrato sullo strumento e sue relative migliorie piuttosto che curare l'aspetto commercialfinanziario della sua carriera, gli va riconosciuto un risultato unico: l'aver cioè gettato un ponte tra due mondi, quello dei suoni artificiali e sintetizzati e l'altro più umano e "naturally correct" della chitarra nella sua accezione tradizionale del termine, in antitesi per definizione. Ma non basta. Allan ama la musica classica ed è molto scettico riguardo le clinic in quanto, a suo vedere, finiscono spesso con l'essere solo una vetrina, un saggio di bravura. Lui invece è rimasto forse l'ultimo puro in un mondo, quello della musica, sempre più attento a seguire le mode, a cavalcare la tigre dell'effimero: fedele al vecchio detto di zio Frank (Zappa) "We're only in it for the money"...